sabato 30 maggio 2020

Parresia, Vol. 10: Dio e le cicale

"Solo un Dio ingiusto può permettere il fastidioso gracchiare delle cicale": questo l'ultimo messaggio archiviato sgraziatamente dalla mia Coscienza, mercoledì pomeriggio.

Negli ormai-sempre-più-costanti dialoghi con la parte di me che più tra tutte odio, quella che mi riporta alla memoria i nefasti di un trascorso che avrebbe potuto raccontare mirabili imprese (o, più semplicemente, azioni volte alla mia salvaguardia e non alla mia distruzione), ho trovato una via d'uscita: una porta sul retro, una scappatoia. Nonostante i continui tentativi nel disinnescarmi, sono riuscito a guadagnare un discreto margine di manovra nel ristrettissimo spazio che mi concede, dal suo ritorno, la Coscienza. In breve: tra quelli archiviati in segreteria dopo il "beep" della fase REM (e tra uno spam e l'altro di prodotti visionati sui social) ascolto esclusivamente i messaggi più importanti.

L'ultimo mi è parso fondamentalmente interessante: testualmente, "Solo un Dio ingiusto può permettere il fastidioso gracchiare delle cicale". Ora, premesso che quello delle cicale è un "frinire" e non un "gracchiare" (la mia Coscienza ha evidenti lacune in tal senso), a differenza di tante altre riflessioni questa, seppur sgraziata, insolitamente non mi è parsa priva di senso. La misantropia che da sempre colora le mie giornate si è trasformata nella consapevolezza ultima della decadenza del circostante: un Dio giusto, qualora esistesse, con ogni probabilità non ammetterebbe in un mondo saturo di opinioni (viva la libertà d'espressione) i canti stonati di chi tende ad infastidire, in maniera conscia e lucida.

Perciò sono giunto ad una conclusione: essendo le cicale consapevoli, pur nella loro ingenuità primordiale, del fastidio arrecato alle nostre orecchie, servirebbe un'entità superiore a porre un freno alla loro vanità. Ma così non è: o se è, essa presta continuamente il fianco alle loro discussioni insopportabili. Connivente. Così noi, nello stesso mondo saturo di opinioni (di prima), ci sentiamo in dovere di "gracchiare" ("frinire") tutti quei pensieri che noi stessi riteniamo fuori dal mondo. Fuori dalla ritmica musicale: semplicemente fuori dal lecito. Vanitosamente, per raccontare qualcosa. Per confermare la nostra presenza, per dire che esistiamo: che ci siamo.

Che siamo: cicale e non più uomini. Barocco fuori e profondo vuoto dentro: come questo pezzo. "Gracchiare" vanitoso, senza scopo e senza Dio.


sabato 2 maggio 2020

Parresia, Vol. 9: La sindrome dell'incompletezza

Ebbene sì, diagnosi impietosa. Soffro della sindrome dell'incompletezza. A dir la verità, lo sospettavo da parecchio: più o meno da quando non riuscivo a darmi pace per quel bicchiere di tè lasciato a metà in un freddo pomeriggio d’estate, seduto di fronte alla replica di una partita di calcio olandese. Avevo otto anni, forse nove. In ogni caso. E' una sindrome personalissima nel suo essere "sapida". A tratti paranoica. Forse è proprio per questo che mi sono recato da uno specialista: il migliore, il Tempo, si trova attualmente in ferie giustificate (e pagate). La segretaria, l'unica a tenere lo studio aperto, mi ha comunicato le sue ultime volontà, lascito di chi non ha intenzione di rientrare in fretta: "Prego, recarsi dal dottor Silenzio. Allievo sapiente, a buon prezzo", recitava il bigliettino scritto a mano con rigore e solito tremolio. E così fu.

La sala d'attesa del dottor Silenzio offre spazio e respiro: incastonato tra l'appartamento di un misterioso e losco rappresentante di ricambi di automobili e simili, tale Tony Rimpiazzo, e l'attico di uno dei più importanti avvocati della zona, il dottor Giudizio, quello del dottor Silenzio è stato eletto a "miglior studio professionale" della città di Sentimenti dalla rivista "Premi a caso per alcune case: edizione premium", superando di misura la casa di cura con piscina del sindaco (e filantropo) ispanico Jorge Corazon. Ma di questo parleremo un'altra volta. Divorate le riviste che ornavano la sala d'attesa da decenni (perché, si sa, è prassi e buona educazione mostrare curiosità e finto stupore per notizie di gossip trite e ritrite, prima di essere ricevuti in visita), e sedutomi di fronte all'imponente e insolitamente ordinata scrivania del dottor Silenzio, la prima diagonsi alla lettura delle analisi fu spiazzante: "Signore, lei deve dimagrire". Come? Io? "Sì, sì, proprio lei: cos'è, stupito? La scienza non mente! I valori della confusione sono troppo alti, così come la quantità dei pensieri nel sangue. Mi dica, quante ore dorme al giorno? Di corpo è regolare?". A me sembra tutto ok, a dire la verità: il sonno non mi manca, anzi. "Ecco, visto? Dorme troppo! Classico caso di "evasione inconscia", come direbbe il professor Leser von Emotionem. Allora, cos'è che le dà noia?". Tanti sono gli aspetti del vissuto che mi annoiano, in realtà: le bugie, ad esempio, o la convenienza. Poi, poi... l'altezza. Soffro di vertigini e la cosa mi restituisce non poco fastidio. "Come sospettavo".

Me lo avevano descritto in maniera assai fedele, il dottor Silenzio: fronte liscia, guance scavate. "Capirai che avrà compreso ciò di cui soffri quando il sopracciglio sinistro supererà l'altezza imposta dai muscoli", mi dissero. E così è stato. "Caro mio, è evidente: lei soffre della sindrome dell'incompletezza". Cioè? "Mi dica, cos'è che prova quando si affaccia dal balcone, guardando il suolo a due piani di distanza, con l'irrefrenabile voglia/tentazione di spingere il suo petto verso la ringhiera per vederlo ancor più da vicino, mentre il cuore si stringe in un urlo d'aiuto, riluttante all'idea di scivolare giù e schiantarsi contro la sua più grande paura, la morte?". Curiosità. "Proprio così: curiosità". Tutto ad un tratto mi fu più chiaro, ma il dottor Silenzio proseguì ugualmente: "Quando il peso della testa si fa più grave, mentre l'orizzonte inizia ad ondeggiare e i polmoni si gonfiano d'aria e preoccupazione, cos'è che pensa? Di cosa è curioso, precisamente?". Di scoprire la vita com'è, senza vertigini. O come deve essere vivere senza paranoie, o che significato hanno, queste. E se cado? Cosa succede al mondo "dopo"? Continua ad esistere, chiaro: ma a me? A loro? Che succede a loro? C'è dell'altro?".

Il dottor Silenzio si girò, prese in mano una pipa, due pizzichi di tabacco e si mise a fumare. "Ha già la risposta, mio caro. Può saldare il conto al banchetto della mia segretaria", e mi liquidò. Il mondo mi cadde addosso. La diagnosi, come detto, fu impietosa: almeno per me. I sospetti erano fondati. Ripensai, quindi, a tutte le volte in cui ho sofferto d'incompletezza: sempre. E anche quando completo una certa cosa, cerco significati e spiegazioni postume, e chiaramente possibili sequel. Citazioni inesistenti: segni del e dal destino. Nella ricetta medica ha scritto due indicazioni: "Dimagrire", la prima, "Smettere di dormire", la seconda. Materiale a sufficienza per la riabilitazione dei sensi. Forse è solo una scusa per ritornare a vivere: forse è solo un motivo in più per dare significato a qualcosa. Ahia, eccola lì, di nuovo: l'incompletezza. Come non detto.


domenica 5 aprile 2020

Parresia, Vol. 8: Al di là del destino

Il sol fatto che io stia ascoltando Enola Gay muovendo ritmicamente il piede destro mentre il resto della mia stanza ascolta il silenzio filtrato dalle mie cuffiette definisce perfettamente lo sviluppo della mia situazione personale. La quarantena (che a questo punto si presenta come ordinaria realtà rispetto a quanto accaduto prima) offre il più diretto tra i treni verso il reciproco ricongiungimento con la coscienza: che, tra l'altro, nel mio caso era stata dichiarata "latitante" da tempo da tutte le principali emittenti teleradiofoniche (e non) di quel paese meraviglioso che è il mio cervello. Sì, insomma, bel quadretto familiare: me, myself and I a colloquio con la mia stessa coscienza. Avrei voluto trovarmi altrove.

Fatto sta che sono qui a scrivere in prima persona (mai accaduto prima) in quello sfogatoio (o raccoglitore di sputi) che è Parresia. Spotify ha cambiato canzone: ci sto un po' a rielaborare i pensieri. Quindi, dov'eravamo? Ah sì: il ricongiungimento con la coscienza. Avreste dovuto vedere la scena quand'è accaduto. La mia classica posizione da "faraone in un sarcofago" (e ciaone alla cervicale) è stata disturbata, in piena paralisi da sonno, dal pensiero che mi ha portato qui. Ricordo che prima di addormentarmi riflettevo sulla forma e sulla sostanza del termine "caustico": poi, come se non fosse già abbastanza strano sognare di essere elegantemente zuppo, dalla testa ai piedi, in una vasca in compagnia di economisti e donne allegre a discutere dell'origine della tequila, sono entrato in quella dimensione meravigliosa tra il sogno e il dormiveglia, ripetendo versi a caso che facevano da sottofondo musicale alle immagini (veloci) delle principali città italiane, classiche dei titoli di testa dei telegiornali. "Gli sovvenne un lampo tra la coscienza e il nulla", recitava il primo. "Al di là del destino", il secondo. Gli altri, vi dico, onestamente, non li ricordo neanche.

Ripeto: avreste dovuto assistere. Il ritrovamento con la mia coscienza è avvenuto esattamente così: di notte, in solitudine, con gli occhi spalancati di chi aveva appena visto il proprio cadavere raccontare quanto fosse divertente la vita dopo la morte, con la sigaretta in mano. Il mio goffo tentativo di affogare la riscoperta della mia coscienza in una playlist di video stupidi su Youtube non ha spento, ahimè, la macchina infernale che all'interno della mia scatola cranica lavora incessantemente per darmi fastidio (deve essere proprio la sua più grande passione). Non è che non voglia avere più rapporti con la mia coscienza, intendiamoci: è che farsi scivolare addosso il mondo è semplicemente più conveniente.

Ora: il senso di tutto questo io lo conosco bene. Dei versi di prima, intendo. Coscienza e destino sono due concetti che fanno a botte pure se li leghi ad una sedia, figuriamoci se li lasci liberi di confrontarsi nello spazio infinito della mente. E il fatto che la mia coscienza si sia mostrata così contenta di vedermi giustifica completamente la reazione di eccessiva sorpresa che mi ha accompagnato finora, visto che ho provato più volte a commissionare la sua morte al destino, amico fidato. O coscienza, o nulla: questo è il lampo. "Al di là del destino", perché questo fa la coscienza: va al di là del fato. Zero possibilità di convivenza tra le due cose. Escludo però che si tratti di una resa dei conti: dopo aver evitato la morte la coscienza era partita per una destinazione sconosciuta in cerca di fortuna. E' il suo ritorno che mi lascia perplesso. Ho sempre puntato tutti i miei averi sul destino: che sia un appello inconscio dell'amnistia richiesta dal mio orgoglio, in prigionia per bancarotta fraudolenta? Sta tutto lì, l'equilibrio: la coscienza modera l'orgoglio, l'orgoglio modera la coscienza. E sullo sfondo il destino. Triarchia della vita.

Non importa. Almeno, per adesso. La sensazione è che la quarantena sia solo a metà del suo corso: arriveranno giorni più divertenti. "Ne usciremo migliori": io dico, invece, che ne usciremo peggiorati. Con più dubbi di prima, con più questioni da risolvere. Che sia questa una possibilità di ricotruirsi nell'animo? Che sia questo un passaggio spaziotemporale che annulla le distanze tra passato e futuro? Forse è proprio questa la definizione della contrapposizione tra "coscienza" e "nulla". Troveremo altri pensieri da affogare, altre noie da ignorare. Ne usciremo diversi: questo sì. Al di là del destino.


domenica 29 marzo 2020

Parresia, Vol. 7: Cose importanti

A chi importa del mare, quando le onde dell'infinito andare placano la voce dei desideri nella schiuma? A chi importa del vento, quando anche l'ultima foglia stramazza al suolo insieme al progetto del perfetto e quieto vivere? A chi importa della luce del sole, quando la notte sopraggiunge inarrestabile, danzatrice del ventre di scarsa speranza, ma di lunghe e oscure intenzioni?

E dite, a chi importa del fumo delle case, delle urla taciute e della noia assecondata, quando gli squarci della terra prendono per mano quelli dell'anima? Disegno imperfetto della tragedia umana: consapevolmente infelici. A chi importa del tempo, quando anche l'ultimo mal di testa è scappato via, insieme alle speranze di una nuova e incosciente malattia? E ancora, a chi importa del gusto e dei colori, quando la vista impone l'astigmatismo dei sogni, accorciandone il distacco dagli incubi?

E a chi importa delle decisioni, delle incertezze, dei passi indietro e di quelli in avanti, delle strade e degli accennati sentieri, delle stagioni e della stasi, dei muscoli e delle articolazioni del pensiero, quando la differenza supera l'identità del nostro vivere, riducendo tutto a incessante e infame movimento?

A me importa.



lunedì 16 marzo 2020

Parresia, Vol. 6: Abbiamo perso la nostra dignità

Abbiamo perso la nostra dignità. I tempi frenetici hanno provato ad avvertire dolcemente le nostre coscienze, fallendo mestamente: non abbiamo ascoltato i loro richiami. Abbiamo perso il nostro mondo, le nostre cose: abbiamo lasciato che il destino le divorasse dall'interno risalendo alla superficie del loro corpo, e che su di esso incidesse i segni della trascuratezza. Voragini piene di sospiri eterni.

Ci siamo fatti ingannare dai cartomanti della fermentazione delle abitudini: i teorici del progresso dell'umano volere. E così ci siamo persi nella commedia dell'esistenza che ci vede apparenti protagonisti di quel racconto impersonale qual è, appunto, la vita. Persi, ancora, nel ruolo di punto più importante di un tratteggio dolce, sputato su un foglio già sporco di linee che non conoscono provenienza e che pretendono consapevolezza del senso ultimo. Sciocchezze. Questo siamo. Ma ciononostante abbiamo perso la nostra dignitià, svilendo la precarietà della realtà, ove ancora possibile. L'abbiamo resa nullità: impresa eroica per piccoli ammassi di carbonio (neanche fin troppo consapevole).

Friedrich ci aveva avvisati. Non meditiamo più. Non c'è più silenzio in noi. Offriamo continua ospitalità ad "una macchina dall'inarrestabile rullio, che neppure nelle condizioni più sfavorevoli cessa di lavorare". Ci siamo noi e la nostra mente mondana: complesso dall'inspiegabile egocentrismo. Non siamo protagonisti: siamo comparse. Al massimo commedianti della seconda linea. Protagonisti sono i nostri movimenti in sincrono, le nostre parole in rima, le nostre esistenze unite. Ma che importa, adesso che abbiamo svuotato di ogni dignità le cose? Ora che non ci prepariamo più a meditare su di esse, ma a fingere? Ora che c'è troppo poco silenzio e troppa velocità di riflessione sulle stesse? Cosa sono queste senza dignità? Nulla: come noi. Come tutto. E come ciò che non è, allo stesso tempo viene ad esistere: ma senza senso alcuno. E', e basta. Ed è qui si compie la tristezza dell'abbandono irreversibile. 

Piangiamone. Abbiamo perso la nostra dignità.



sabato 7 marzo 2020

Parresia, Vol. 5: Il panchinaro

Siede comodo, il panchinaro: colui che sente spiritualmente il peso della sfida con un mondo che ha preferito, per lui, il ruolo di assistente. E lui per tutta risposta assiste, in duplice senso: assiste gli altri, nel senso di supportare, e assiste gli altri, nel senso di guardare. E' un assistente della vita: respira le emozioni in modo distaccato, con un privilegio in più rispetto ai comuni. Può sognarle, ma senza toccarle. Privilegio raro: sia mai che ci si sporchi le mani di quel delitto immondo qual è l'errore.

Come può essere definito questo se non, appunto, un privilegio? Il non essere chiamato in causa, seconda scelta da sempre, porta sempre benefici: meno fai, meno sbagli. Quindi siede comodo, il panchinaro: puntualmente pronto ad entrare, ma conscio di non poter mai essere protagonista. "Meglio lasciar fare il grosso agli altri": a lui spettano gli ultimi minuti. Quando va bene. In caso contrario doccia calda rigenerante: non si è corso neanche oggi, ma se questa deve essere, la vita... Sì, insomma. Bisognerà farsene una ragione, una volta in più. L'abitudine di un vissuto da assistente, d'altra parte, gli è utile: e se per caso capita la grande occasione, quella da titolare per indisponibilità delle prime linee, beh, la si sfrutta nel migliore dei modi. Da operaio: stucco e spatola, si porta a casa la giornata. Sia mai che l'allenatore vada in difficoltà... no, meglio tenersi la panchina. Posto sicuro.

Diventa persino il "distrattore" dai cattivi pensieri, sempre pronto a dare il cinque a chi esce dal campo: "bravo, bravo", e via di pacca sulla spalla, offrendo la borraccia. "Grande oh, quel colpo di tacco... e quella giocata...": sa bene che non sarebbe mai riuscito a farla, il panchinaro. Limitato nelle ambizioni e nelle aspettative: agli altri la gloria, a lui la medietà. "In medio stat virtus": chissà che sorpresa scoprire che, in realtà, la virtù gli spetta di diritto molto più di quanto possa mai spettare ai titolari. Figure da mettere in mostra, pedine sporche del fango dell'apparenza "gialla" dei riflettori: è con la luce soffusa che si vedono le anime luminescenti. Tutte brave, al contrario, quelle degli altri a raccogliere la linfa vitale dei fari.

Guarda di nuovo la lista dei convocati: il suo nome è scritto con i soliti caratteri intrisi di inchiostro muto, ma il destino racconta che andrà di nuovo in panchina. E' nel silenzio della scelta di non ribellarsi che viene fuori l'anima luminescente del panchinaro. Sa bene che il non ribellarsi è la prima forma di ribellione in un mondo di urla e casinisti. E nel silenzio segue la sua strada, ascolta la voce più intima che gli confessa il più prezioso tra i segreti: un giorno arriverà il suo momento. Intanto un'altra partita ha inizio. Si siede, guarda il campo: applaude le giocate dei compagni. Assiste. Gli altri, il presente. Se stesso. Povero, bugiardo.




venerdì 28 febbraio 2020

Parresia, Vol. 4: Mal di testa


Scorre veloce, il giorno nebbioso. Fugace attimo fisso nel tempo: atipico abbraccio del caso. Uniforme: sorge e tramonta nella stessa maniera, e con fare elegante preannuncia il mistero di un orizzonte invisibile. Immaginario. Col verso del silenzio si presenta privo di fastidio, sospeso: ponte tra il passato e il futuro.

Accoglie il risveglio delle intenzioni. Dona rifugio ai sognatori. Cuce preciso, con far da sarto, l’abito invincibile del viandante nella valle delle infinite possibilità: osserva disinvolto il nervoso andare della viaggiatrice confusa. Le consegna certezze mai avute prima: o almeno, ci prova. Non deve essere semplice scendere a patti con chi fa spola tra ragione e sensazioni, senza mai ascoltarsi. Amico fedele, la avvolge di fitto velo riflessivo, offrendole il luogo di confronto perfetto tra tutti. Lo spazio illimitato del dialogo con se stessi. Tinge di bianco la pelle chiara di chi riflette i pensieri del mondo circostante: gioco di luci e ombre scandito dal passo ritmato, ed elegante, del cammino sempre nervoso e sempre nuovo alla ricerca di appigli, tinto di un non so che di ipnotico. Un “mal di testa”, insomma.

Confonde e sbiadisce: illumina e guarisce. Prosegue, la viaggiatrice confusa, mentre un nuovo giorno nebbioso le riporta alla memoria immagini di un tempo che sembra parlare una lingua sconosciuta: quel ponte, sospeso tra passato e futuro, che ritorna presente, puntuale, con il crollo delle certezze. Sistema gli occhiali, non è ancora finita. Il giorno nebbioso le ricorda che non c’è niente di più prezioso dell’istante hic et nunc nella progettazione del domani: che gli spazi illimitati esistono per essere esplorati. Che il sentiero porta sempre in dote una possibilità di rivalsa: che ogni mal di testa è il frutto del litigio tra pensieri. Il silenzio è il suo lascito, in un mezzo sorriso che racconta le sconfitte del vorrei, ma non posso. L’oggi racconta un’altra storia. Osserva l’orizzonte fitto, rivestita dalla nebbia. Ci vede dentro un motivo per andare avanti. Si presenta: il suo nome è Speranza.


martedì 11 febbraio 2020

Parresia, Vol. 3: Bisogni indescrivibili

Abbiamo tutti bisogno di appigli, nell’irreversibile scissione della coscienza. Pratiche disumane che portano al transumanesimo via psiche. Appigli come pattini verso l’oblio. Lontani dalla gaia scienza. Vicini all’autodistruzione. Questo siamo, nelle pagine più cupe delle nostre vite: lame infinite nel vortice delle emozioni.

Abbiamo tutti bisogno di luci, nel buio della notte che vede dormire la nostra coscienza. Lumi disincantati che guardano al tempo che fu, senza consegnar troppa confidenza al richiedente. Non sia mai. Il silenzio deve molto alla pazienza, la pazienza deve molto alla sua controparte: l’impazienza, a sua volta, deve molto al silenzio, nel circolo vizioso dell’ipocrisia. Mentiamo a noi stessi prima ancora che al prossimo, nel teatro delle maschere di carta riciclata dai sogni degli altri. Perché sì, i nostri sogni sono sempre stati i sogni di qualcun altro. Senza appello, né smentita. 

Abbiamo tutti bisogno di un’identità, nel miscelarsi delle stagioni dell’anima. Di una direzione nell’oceano privo di coordinate spazio-temporali della società della fretta. Siamo gattini ciechi figli di gatte frettolose. Macchine imperfette programmate con software privi di aggiornamento. Obsoleti dalla nascita: barche senza vele ingannate dalle onde gentili, illuse del bacio alla riva che se esiste, esiste per pochi.

Abbiamo tutti bisogno di dormire. Di mangiare e di bere dal fiume della speranza alimentato da fonti non rinnovabili. La vita che ci rimane e le sue mille facce. Di carta, di plastica e di ferro. Siamo la concretezza che non ci appartiene e che non ci è mai appartenuta. Siamo la finta modifica del destino. Siamo.

Abbiamo tutti bisogno di qualcosa.

Di cosa ho bisogno io? Di cosa hai bisogno tu? 


lunedì 6 gennaio 2020

Parresia, Vol. 2: L'ultimo sigaro

L'ultimo sigaro è un po' come l'ultima sigaretta di Zeno. Ultima, per ultima tra le cose. "Un po' come l'ultima sigaretta", però. L'ultimo sigaro è "differenza" arrotolata tra foglie e nicotina. E' una sentenza proferita dal giudice morale che alberga dentro di noi, con mezza pensione. Ho fumato l'ultimo sigaro.

E' stata l'ultima tra le cose che avevo da fare. Ho deciso di farlo nel silenzioso mezzogiorno, mentre il tacito assenso del sole faceva sfogare il vento. Ed è stato allora che ho compreso il peso di quella decisione: la scintilla dell'accendino, il solito accendino, mi ha trasmesso la sofferenza di una fiamma che non aveva più la forza di opporsi alle folate che le impedivano di divampare. Strana coincidenza. Ho fumato molti sigari nel corso degli ultimi anni: ammezzati, i perché della scelta non li ricordo. Da sollazzo a riflessione: tutti hanno avuto il loro momento. L'ultimo era già iniziato: l'ho trovato nella sua forma "perfetta", a metà tra il nuovo e il passato. Aveva capelli di cenere in perfetta condizione e una coroncina ben definita attorno ad essi. Raccontava dell'ultima fumata, prima di essere inesorabilmente acceso. Diceva di aver dialogato con un vento marino di inizio inverno, neanche troppo tempo fa. Sembrava, ha aggiunto il sigaro, che quel vento avesse riportato l'ordine nelle piazze e i petali sui fiori, dopo l'ultima, veloce tempesta. Erano stati tre giorni difficili per tutti, tra il conto dei danni e degli anni: ma quel vento marino sembrava aver rimesso tutto in ordine. Gli raccontò, e mi raccontò di conseguenza quel sigaro (l'ultimo sigaro), il profumo del Natale, visto che sì, il Natale ha un profumo tutto suo. Non ha fatto in tempo a proseguire il racconto, strozzato dalla fiamma che in un attimo di pietà del vento (che di marino ha poco, questa volta) è riuscita a levarsi fiera.

La mia prima sigaretta fu in un parcheggio, d'estate. Ho sempre tenuto ai miei polmoni, ma l'odore e la visione ipnotica di quei fili di tabacco che bruciano non mi sono mai stati antipatici a tal punto da definirli, rispettivamente, "puzzo" e "ribrezzo". Sono gusti. Il sigaro è stato di più. Svevo, per bocca e pensieri di Zeno, ammette che le "altre sigarette", a differenza dell'ultima, "hanno la loro importanza perché accendendole si protesta la propria libertà e il futuro di forza e di salute permane, ma va un po' più lontano". L'ultima, invece, ha un gusto più intenso. "Acquista il suo sapore dal sentimento della vittoria su se stesso e la speranza di in un prossimo futuro di forza e di salute". L'ultimo sigaro, il mio ultimo sigaro, a differenza delle sigarette di Zeno non mi ha offerto alcuna via alternativa: e quasi alla fine si è spento. Il vento ha reso interminabili i tiri, cambiando lo scenario. Si è spento da solo, come avrebbe dovuto. Mi ha lasciato un messaggio prima di andare: il calore sui baffi che salvaguardo gelosamente dalle difficoltà quotidiane. La sentenza del giudice morale che ha scelto di saldare il conto e lasciare la sua stanza d'albergo. La cenere è caduta: il vento si è alzato. Tempi mutevoli bussano alla porta. 

Cosa offrirò, adesso?