mercoledì 19 febbraio 2014

Il "vincolo" di un #hashtag

Un mondo di cancelli, nessuna libertà. Cancello, chiuso. Lo "cancello"? Scrivo, anzi, digito. Invio, non funziona, si blocca: insulti (vari), è la macchina o sono io che non vado? Viviamo in un mondo chiuso da un cancello, un hashtag, parliamo "twittando" il giusto in 140 caratteri, niente di più: il lettore si annoia. Io mi annoio, non va bene: cancello ancora. Deve colpire, attirare l'attenzione, riscuotere consensi positivi: è il mio spettacolo, in quel teatro quale il mio profilo. La locandina "condita" dall'immagine di copertina, lo stato: a cosa serve? A nessuno interessa se sei felice: l'aforisma diventa la chiave del successo. Filosofi snaturati, grandi uomini si rivoltano sotto i nostri piedi. Amicizie. Amicizie? Seguaci. Ah ecco, ci intendiamo. "Dietro uno schermo", che luogo comune! Eppure io stesso sto scrivendo, adesso, dietro ad uno schermo, chiuso nel mio "mondo", siggillato da un "hashtag". Ah, a proposito, bello il monumento che hai visitato ma..sai almeno la storia? Instagrammiamo tutto, fotografiamo: e forse questo è un bene. La politica "fatta" dal popolo: non siamo contenti? Le critiche ad un programma TV: normale. Gli insulti ai tifosi avversari: ci sono sempre stati. La tendenza, noi. Non ci si stupisce, non fa più tendenza: è normale. Normalità, nell'anomalia. Ci lamentiamo troppo di vivere in un mondo "poco sociale" che non ci rendiamo conto che, invece, è più "social" di quanto pensiamo: il pranzo è social, lo sport? E' social! I sentimenti sono social...mente incomprensibili. Come ciò che si scrive chiuso da un hashtag, come noi, chiusi da un "hashtag" del quale abbiamo le chiavi ma dal quale non vogliamo uscire. E, forse, è un bene. 



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