lunedì 3 luglio 2017

Calcio, sorrisi e "tifo... blucerchiato": ciao Paolo


Di’ la verità, Paolo, o se vuoi Ugo, come preferisci: lì, dove sei andato, c’è il calcio? E la vista sul Marassi com’è? Dai, su: lo sappiamo che non hai digerito il rifiuto a Sneijder, ma la tua Sampdoria può ancora rifarsi, il mercato non è ancora finito. E lì… dov’è che sei esattamente? In paradiso o, come già accaduto, non avendo i permessi giusti per entrare ti hanno “dirottato” al cospetto di Buddha per reincarnarti? Di sicuro non lontano: né tu, né ciò che ci hai lasciato in “eredità”, in un triste giorno d’estate.

Ti sta aspettando, pronto, il ragionier Filini: ha organizzato tutto nei minimi dettagli. Questa volta non ci saranno equivoci con i tifosi scozzesi: prenderete il pullman giusto per guardare Italia-Scozia, e allora sì, “Win the best”, senza tafferugli. Dove sei non mancherà la frittatona di cipolle “per la quale andavi pazzo”, la familiare di Peroni gelata e il tifo indiavolato. Anzi, magari non proprio “indiavolato”: sicuramente blucerchiato. Gli ultimi anni sono stati poco entusiasmanti, ragionier Fantozzi, come darle torto. Ma vedrà che si rifaranno: Giampaolo è un maestro, il prossimo campionato sarà diverso. Intanto, se vorrai, caro Paolo, potrai distrarti con una partita: scapoli e ammogliati, la rivincita. Su un terreno di gioco migliore, senza pozzanghere.
Sia chiaro: la nuvoletta non ti abbandonerà mai. Ma, per noi comuni mortali, forse è giunta l’ora di salutarti e ringraziarti: sulla traversa è apparso San Pietro, con le chiavi in mano, segno che la gara sta per finire. E tra le immagini che scorrono in mente, giacca e basco in testa per una chiamata improvvisa, viene spontaneo chiederti, caro Paolo: alla fine, “chi ha fatto palo?”.



venerdì 19 maggio 2017

“El Chico” si ritira: da Lanús al vulcano, “garra” e tecnica Ricchiuti

“El Chico” e “Papu y Los Vulcanos”: storie di un Catania argentino. Sangue “latino”, sorriso e “garra” infinita: quel “Gracias por tu futbol” scritto qualche anno fa dai suoi compagni sulla lavagna “dei saluti” e sulla storia di quei colori che, volente o nolente, definiscono pienamente l’uomo e il professionista Ricchiuti. Una linea continua che collega Lanús e l’Etna, prima di tornare alla “sua” Rimini: appende le scarpe al chiodo, Adrian, dopo aver disegnato ricordi ed emozioni indelebili.
Corsa frenetica e braccia aperte: tutti in piedi sul divano. L’espressione incredula in un pomeriggio d’aprile alla Scala del Calcio dice tutto: lui, il più basso in campo. “La struttura alare di Ricchiuti, in relazione alla sua altezza, non è adatta ai gol di testa. Ma lui non lo sa, e segna lo stesso”: colpo “de carezza” e tango tutto argentino con Maxi Lopez che regala il 2-0 parziale contro il Milan. Una prestazione storica quella con l’Inter qualche mese prima: Mihajlovic lo schiera regista contro il centrocampo del “Triplete”. Cambiasso sembra un dilettante, Stankovic prende appunti: lui sfiora la rete, ma saranno applausi. Di ricordi catanesi, Adrian, ce ne sono tanti: si dice che al Watford Mazzarri provi schemi e contro-schemi per gli incubi causati dal 2-1, sempre di testa, subito dal suo Napoli al Massimino. Ma il sorriso, quello non si scorda mai: più dei fotogrammi, più delle prestazioni.
La disponibilità e il calore: “l’uomo” Ricchiuti, figlio “adottivo” del vulcano, che Catania chiamò a gran voce al momento della fine del contratto. Quanti rimpianti, quanto rammarico: il futuro lo vede in panchina. Con il sangue “caldo” che si ritrova sarà dura essere un suo giocatore: lui, d’altra parte, le idee chiare le ha sempre avute. Testa al campo, “pace, amore e gioia infinita”: quella “joya” che, in terra etnea, manca da tempo, ma che in città ricorderanno negli anni. Allora sì, “gracias por tu futbol”, Adrian.

martedì 9 maggio 2017

Auguri Davide: ci vorrebbero undici Baiocco contro la Juve Stabia...

Album delle figurine, stagione 2002/03: Catania a pagina 80, accanto al Cosenza, in Serie B. Erano i rossazzurri neo-promossi in cadetteria, dei cambi in panca, da Toshack a Guerini, passando per la coppia Graziani-Pellegrino ed Edy Reja, di Lulù Oliveira e di Gennaro Iezzo in porta. Appena quarantasette pagine indietro, alla numero 33 c’era lui: capello corto e sorriso “buono” a trasparire una certa tranquillità, in quel colletto alto della maglia bianconera indossata, “da bravo ragazzo”. Ecco: l’antitesi perfetta di Davide Baiocco, 42 anni ieri e 172 cm di sangue perugino ed emozioni per cuori forti.

Con tutto il rispetto, Davide: sappiamo quanto tu sia simpatico, e ci permettiamo di scherzare. Il vulcano ti chiamava, quasi ad evocare una perfetta simbiosi tra l’atleta che sei e la tua forte personalità da leader. Quando nel 2005 arrivò l’annuncio del trasferimento al Catania in città girava una sola domanda: “Ma Baiocco quello che giocava nella Juve?”, sì. Al Massimino, se si fa attenzione, si sentono ancora il rumore dei contrasti, l’urlo finale della sfida salvezza con la Roma e i cori della stagione successiva, al 34′ di un pomeriggio pre-natalizio: rete ai giallorossi e pubblico in piedi ad applaudire. Quello che non ti ha mai abbandonato, Davide, così come tu non hai mai “lasciato” questa città. Ah, come ringhiavi tu sulle caviglie avversarie… Ma passiamo oltre. Ecco, nel giorno del tuo compleanno, vuoi per la fresca qualificazione ai Playoff del Catania, vuoi per la voglia di far voli pindarici rivolti ad un passato pieno di gioie ed emozioni, esclamiamo: “Ci vorrebbero proprio undici Baiocco contro la Juve Stabia!”. E sì, e ci riallacciamo anche al concetto espresso dall’Ad Lo Monaco: quei “capitani-non giocatori” di cui ha parlato settimane fa. Lo sappiamo, l’hai confidato ai nostri microfoni: “La stima si dimostra con le parole e con i fatti, fanno piacere, segno che si riconosce qualche qualità, però lasciamo stare”, ma il concetto rimane quello.

Ci vorrebbero quegli elementi che tirino fuori… il carattere giusto al momento giusto, che si facciano sentire prendendo per mano il gruppo. Che sbottino con l’arbitro quando necessario, che “rompano le scatole”. Ma, forse, non è un caso che tutto questo manchi, dato che tra i numeri indossati sulle maglie rossazzurre non c’è alcun 17. Ma si può certamente rimediare: YouTube può aiutare e servire da ispirazione. Intanto sono 42 candeline, e il resto è storia.



venerdì 5 maggio 2017

Pozzebon: adesso tocca a te

Si era presentato con il nome, Demiro: "Viene dal latino, significa ammirare", raccontava in conferenza. Aggettivato, "ammirevole": come le mirabilie di febbraio, delle partite con il Matera e con il Messina, con le mani spellate di una piazza che lo ha accolto a braccia aperte dopo averlo "ammirato", appunto, con la maglia giallorossa. Ma di quel Pozzebon, finora, solo sprazzi e lampi: e se Caserta, per il Catania, diventa un match chiave in ottica Playoff, per il puntero rossazzurro il discorso non è assai diverso.

In poche parole, Demiro: adesso tocca a te. Senza critiche becere, sempre se l'argomento tirato in ballo durante la conferenza di mister Pulvirenti ti riguardava davvero: anzi, partiamo proprio dal presupposto del tecnico dicendo che, se "produttivi", i giudizi aiutano a crescere. Anche se, poi, nessuno è giudice supremo quanto lo è il campo: lui non mente mai. Ti sbatti, corri, lotti per la squadra e i compagni, ma non segni: è dura essere un attaccante e non riuscire a gonfiare la rete neanche in quelle occasioni che di solito non sbagli. Lo comprendiamo. Ma, se vuoi, è anche la "croce" di un ruolo tra luci e ombre: come per il portiere, si passa dalle stelle alle stalle troppo in fretta, con due o tre partite ciccate. Ed è qui che si vede il carattere di un giocatore: reagisci o è un tunnel psicologico. Lo ha detto anche Pulvirenti: "Se ci sono occasioni, bisogna segnare". Gli ultimi novanta minuti sono una porta aperta sul destino di tutti: cosa riserverà il futuro? E' carta bianca per chi vuole scriverci sopra il proprio nome e la data, per poi metterci la firma con una dedica: "Io ci sono ancora". E' la possibilità giusta per il rilancio: ma, Demiro, dipende da te.

Come quella domanda che si ripete, "essere o non essere?", che ti riguarda: essere l'attaccante principe del Catania? Le sole due reti messe a segno finora non aiutano certo, come d'altronde le occasioni sbagliate con Monopoli e Siracusa, per non parlare di quella con la Paganese che poteva totalmente cambiare le sorti del resto della stagione, ma "Demiro", da "Miro", in latino non vuol dire solo ammirare: significa anche "sorprendersi". Che, se vogliamo, può anche stare per "riprendersi", e riprendere per mano quel reparto e quella piazza che ti aspetta dal 26 febbraio. Insomma: il futuro passa anche da qui, in attesa di risposte alla nostra "lettera aperta", magari sul campo.



mercoledì 29 marzo 2017

Perché credere? Perché no?

Perché credere? Perché no? Perché non costa nulla, nemmeno fatica. Perché continuare a sperare? Perché il Catania è e rimane il Catania, nonostante tutto: colori e amore infinito. Storia e tradizione: appartenenza ad oltranza. Perché al di là delle quattro sconfitte consecutive, la passione rimane, così come la possibilità di approdare ai Playoff. E poi, chissà…è pur sempre un altro campionato, no?

Siamo onesti, senza nasconderci: il tifoso catanese, per quanto disilluso e rassegnato, non smetterà mai di sognare e amare. Non è certo una colpa, né un peso negativo, quello di essere legati visceralmente a questa squadra. Allora, perché credere? Perché no? Il calcio è una religione: senza voler essere blasfemi, basterebbe chiamare in causa Blaise Pascal con la sua “scommessa sull’esistenza di Dio”. Esiste? Non esiste? Puntiamo, e paragoniamo: il filosofo dice che se scommettiamo che Dio esiste e vinciamo abbiamo vinto tutto, ma se perdiamo non abbiamo perso nulla. Anzi: c’è solo da guadagnare a crederci, perché avere ragione equivale alla possibilità di vivere nel regno divino in futuro. In caso contrario non accade nulla. Bene, con questa premessa abbastanza sintetica (che non rende onore alla tematica) ritorniamo al Catania: bisogna realmente pensare ai Playoff? Sì, perché dovesse arrivare una qualificazione (o altro) si potrà gioire e continuare a sperare. Altrimenti si potrà porre le basi per la progettazione del prossimo campionato.

Passiamo al campo: la nostra scommessa ci dà ragione. I rossazzurri, attualmente, sono a un solo punto dal decimo posto, nonostante il periodo parecchio negativo. Il potenziale tecnico a disposizione, da Pisseri a Pozzebon, insieme alla panchina “lunga” e il calendario avvalorano la nostra tesi, ma sul terreno di gioco poco è stato dimostrato, a voler essere sinceri. Tanto è che crederci, stando al momento psicofisico della squadra, non è cosa semplice: ma come dicevamo? Perché non farlo? Ah, già, vero: gli ultimi quattro anni. E come dar torto e togliere la voce a ciò che è stato e che ancora brucia? Ma se dovesse riuscire tutto? Che succede? Si può guardare avanti, al regno divino di chi spera un ritorno al principio: dell’amore che non finisce mai e che trascende i limiti della razionalità umana.




giovedì 12 gennaio 2017

Il sogno europeo degli americani: tra Craven Cottage e i problemi di cuore, storia del "numero due" Dempsey

Dalla palla ovale a quella rotonda, senza più tornare indietro: il movimento calcistico americano è in costante crescita, è evidente a tutti ormai. La Major League Soccer, però, non è solo veder giocare contro Giovinco e Mancosu (roba nostra, quella), ma anche e soprattutto culla di talenti che, da circa un decennio, cercano fortuna in Europa: da Dempsey a Pulisic, passando per AduIl sogno “europeo” degli americani è solo all’inizio.

Racconto di un texano sempre imbronciato e dal carattere “strong”: da rodeo e motori. In tanti avranno in mente il pallonetto che infiammò Craven Cottage nel 4-1 del Fulham sulla Juventus in Europa League: era il 2010, ma la storia di Clint Dempsey incarna quasi alla perfezione la definizione di sogno. Tra gioie e dolori. D’altra parte, il nome dice tutto: “Clint”, come Eastwood. Non “per un pugno di dollari”, ma per una promessa che va ben oltre il calcio, quella rivolta alla famiglia e alla sorella morta per un aneurisma quando aveva dodici anni: “Perdere mia sorella mi ha dato una grande spinta. Mi ha fatto capire che la vita è breve e bisogna fare il massimo. I miei genitori guidavano fino a Dallas per tre ore all’andata e tre ore al ritorno per farmi allenare e giocare. Tutto questo, a quell’età, mi ha formato alla grande”, ha dichiarato. Dalla squadra della Furman University, i “Paladins”, al New England Revolution il passo è stato breve: presto entra nel programma giovanile della nazionale USA e nel 2004 la MLS diventa il suo palcoscenico principale. Lui risponde alla chiamata con quella che è stata definita “una delle peggiori capigliature” viste in un ritiro precampionato, ma in campo va nettamente meglio: ventiquattro presenze e sette gol nella regular season, senza dimenticare le tre apparizioni nei playoff (con una semifinale persa dopo aver sbagliato il rigore decisivo). Dopo due stagioni al New England con più di cinquanta presenze complessive, il destino gli lancia un segnale, quasi una maledizione da “eterno secondo”: prima perde in finale contro i L.A. Galaxy, poi contro Houston. Le partite secche non fanno per lui, ma è un antipasto.

Niente paura, la storia ha una voce con il suo nome: ai Mondiali del 2006 segna l’unico gol degli USA, e diventa un idolo, tanto che molti in Europa iniziano a mettere gli occhi sul terribile ragazzino texano. Lui è già pronto, ha già la valigia sull’aereo: d’altro canto, dopo essere rientrato nella miglior formazione del campionato per due stagioni di fila, chi volete che non lo sia? Prima si fa avanti il Charlton, ottima piazza, con la Premiership che può aiutarlo a crescere: New England chiude la porta, lui si arrabbia. Si apre un portone. Arriva l’offerta del Fulham: la storia del calcio inglese e uno statunitense con le tasche piene di sogni. E poco più di quattro milioni: cifra record per un calciatore americano. La seconda parte di Premier dei cottagers non è delle più esaltanti, ma lui, texano dal sangue duro, ci mette appena nove gare e 223 minuti prima di battere il Liverpool e salvare la squadra dalla retrocessione: 1-0 e Clint diventa un eroe. Craven Cottage la sua seconda casa, ma è solo l’inizio di una storia d’amore: 228 presenze, 60 gol e 21 assist totali. In mezzo un infortunio e un’altra finale persa, la realizzazione della maledizione, quella contro l’Atletico Madrid in Europa League. Clint è stanco, forse è meglio cambiare aria: nel 2012 va al Tottenham, maglia numero 2 sulle spalle: e sì, allora è proprio una maledizione.

Al termine della sua avventura a White Hart Lane chiude la valigia, ma i sogni? Alcuni realizzati, altri no: Dempsey torna in MLS, stavolta a Seattle, e diventa testimonial del calcio statunitense nel mondo. Il Texas è lontano, Fulham anche: ma sapete com’è, certi amori…Nella primavera del 2014 i cottagers rischiano seriamente la retrocessione, cosa che avverrà qualche mese dopo: l’eroe vuole tornare. L’eroe vuole dare una mano. Cinque presenze e pochi minuti giocati in tre mesi. Missione fallita. Nei Sounders trova Oba Oba Martins e i due formano una coppia che nello stesso anno sfiora la finale del campionato. In mezzo altri due Mondiali, nel 2010 e nel 2014 e due mete da raggiungere: superare i gol internazionali di un certo Landon Donovan ed eguagliare il record di quattro campionati mondiali disputati proprio di DeMarcus Beasley.


Ma il destino è crudele per chi vuole sognare: il caso vuole che nel 2016 in Major League il Seattle metta in fila una striscia di risultati positivi che gli permetteranno, poi, di vincere per la prima volta nella storia il titolo, e indovinate? Lui non c’è, fermo ai box per problemi cardiaci: il futuro calcistico a rischio, il sogno sfuma, ma Clint è sicuro. “Voglio chiudere la mia carriera spingendo fino alla fine”, e per un texano della sua tempra non sarebbe mica cosa strana.